Blackmoon, fiaba del bambino vecchio. Una racconto educativo sull'abbandono e sull'amore, un percorso di rinascita. E' possibile ascoltare l'audiofiaba su https://youtu.be/KpHsnChLTBQ
Fiaba scritta da Simona Platè, narrata da Simona Bogani, musicata da Riccardo Tonco. Collana fiabe astratte.
BLACKMOON
C’era una volta Blackmoon, il bambino vecchio. Nato in un luminoso giorno di luglio, ad agosto aveva già tre anni. A settembre 5 anni, ad ottobre 7 e così via.
Il padre partì un minuto prima della sua nascita, la mamma un minuto dopo. Il bambino passò di mano in mano da una vicina di casa all’altra. Vicina dopo vicina, casa dopo casa, strada dopo strada Blackmoon si trovò ben presto a dormire in una cuccia di cane abbandonata, vicino ai binari del treno.
Blackmoon non era il suo vero nome, ma il bambino non sapeva di averne uno, perché ogni vicina di casa gli aveva dato un nome diverso a seconda del suo gusto e così quando si ritrovò a vivere nella cuccia di cane si scelse il nome da sé.
Piccolo, magro e con due grandi occhi neri e bui, Blackmoon non andava a scuola. Nulla gli sembrava interessante o importante e solo se necessario apriva appena la sua bocca, sempre dritta come una linea retta.
Aveva una sola passione, aggiustare le cose rotte.
«Se riesco a capire come mai le cose si rompono, riuscirò ad aggiustarmi anche io», pensava.
Era convito di avere, come gli oggetti e le macchine, qualche difetto di fabbricazione perché le persone che aveva incontrato e con le quali aveva vissuto lo avevano inizialmente riempito di attenzioni e poi, al suo primo malfunzionamento, ceduto come oggetto di seconda mano.
Al posto del cuore, che si era dissolto in mille pulviscoli spazzati via dal vento, aveva un muro di cemento e pali di acciaio. Parlava poco e passava il tempo a cercare il cacciavite giusto per riparare ogni cosa rotta.
A forza di lavorare, con cura e pazienza, Blackmoon era diventato bravissimo ad aggiustare le cose tanto che molti andavano da lui con i loro oggetti rotti, glieli lasciavano davanti alla sua cuccia di cane, poi tornavano a riprenderli aggiustati, in cambio di cibo o denaro. Blackmoon non parlava mai con loro e loro ricambiavano il suo silenzio. Nessuno provava ad andare oltre: «Ho già troppe cose per la testa per occuparmi di un bambino vecchio! Se non vuole parlare avrà le sue buone ragioni!», pensavano tutti.
Più diventava bravo nel suo lavoro, più si allontanava, però, dal suo scopo. Aggiustare gli oggetti e le macchine era facile, ma dentro di lui c’erano viti, bulloni, molle e meccanismi molto più complessi. Ci volevano altri attrezzi e lui non riusciva a capire come fare a trovarli.
Blackmoon non odorava di bucato come gli altri bambini, anzi puzzava parecchio e i suoi capelli erano pieni di pidocchi. Aveva troppa paura dell’acqua per lavarsi, perché l’acqua fa marcire e arrugginire le cose e soprattutto quella di mare, con tutto quel sale, chissà cosa avrebbe fatto ai suoi delicati meccanismi.
Oltre a lavorare, Blackmoon passava il tempo a osservare, dalla sua cuccia di cane, i treni che portavano lontano, carichi di persone che andavano lontano, più lontano di quanto lui potesse immaginare.
Guardava i passeggeri con curiosità, cercando di carpire il segreto dei loro meccanismi così perfetti, ma i treni correvano troppo velocemente e le immagini delle persone dietro ai finestrini duravano un battito di ciglia.
Un giorno, davanti alla sua cuccia passò un vecchio che camminando in mezzo alle rotaie trascinava un pesante sacco bucato che perdeva una scia di piccoli oggetti. Blackmoon guardò meglio e si accorse che si trattava di attrezzi da lavoro simili ai suoi: cacciaviti, tenaglie, pinze, bulloni…
Incuriosito, appoggiò per terra l’oggetto che stava aggiustando, prese un sacco, si alzò e si mise a seguire il vecchio da qualche metro di distanza.
Camminava lentamente e a ogni passo si chinava a raccogliere gli oggetti che scivolavano fuori dal sacco del vecchio. Più camminava, più raccoglieva e più si sentiva euforico. Non aveva mai visto così tanti attrezzi, alcuni a lui sconosciuti. Li osservava e poi li metteva nel suo sacco; non aveva ancora deciso se li avrebbe restituiti al vecchio o se li avrebbe tenuti per sé.
Pensava soltanto: «Forse fra questi attrezzi troverò quello che mi serve! Quello che mi aggiusterà, così troverò qualcuno che mi vorrà bene!».
Il vecchio non sembrava essersi accorto di Blackmoon e neanche che il suo sacco fosse bucato e che man a mano si alleggeriva, svuotandosi degli oggetti che perdeva.
Camminava con lo sguardo all’orizzonte e la sua voce bassa e roca, intonava un canto e lo ripeteva all’infinito.
A Blackmoon, di quel canto, arrivavano solo poche note e poche parole, ma si sentì subito ipnotizzato da quella voce.
«il tempo delle fragoleee…lontano, lontano…ti avevo chiesto di aspettarmi…un pezzo di cielo dopo l’altro…lontano, lontano…e ti ritroveròòò…»
Era ormai da molte ore che un vecchio e un bambino vecchio seguivano il loro comune cammino lungo le rotaie del treno. Il vecchio avanzava e cantava, il bambino lo seguiva, si chinava e raccoglieva.
Il tramonto era ormai alle porte dell’orizzonte e il cielo iniziava a macchiarsi qua e là di rosso, rosa e arancio.
A un certo punto il vecchio abbandonò la ferrovia e prese un sentiero fra i campi, poi si fermò.
Blackmoon alzò lo sguardo e si accorse che si trovavano davanti al mare.
Provò un brivido lungo la schiena nel vedere quella distesa di acqua e soprattutto di sale, così pericolosa per lui.
Il vecchio, per la prima volta, si voltò a guardarlo e gli sorrise, poi riprese ad avanzare e come se niente fosse entrò nel mare, continuando a cantare.
Blackmoon, confuso, osservò la scena e quando il vecchio scomparve fra i flutti, il bambino soffocò un grido spaventato.
Il vecchio non riemergeva dalle onde del mare e Blackmoon correva impazzito da una parte all’altra della spiaggia, senza mai avvicinarsi all’acqua.
«Cosa mai gli avrà preso a quel vecchio? Perché si è tuffato nel mare e perché non riemerge? E adesso? Cosa devo fare? Non posso andare a prenderlo, non sono certo di saper nuotare e poi quell’acqua mi guasterà per sempre!», si domandava disperato.
Le onde iniziarono ad avanzare sulla spiaggia e arrivando quasi a lambire i piedi di Blackmoon lo chiamarono: «Non puoi lasciarlo morire! Devi tuffarti Blackmoon! Non puoi lasciarlo affogare! Devi tuffarti Blackmoon!»
«Non tormentatemi! Non posso farlo! Non torturatemi, questo mare sarà la mia fine!», rispondeva gridando e piangendo Blackmoon.
I minuti intanto passavano e il vecchio non riemergeva. Non c’era più tempo da perdere e il cuore di Blackmoon iniziò a battere così forte da sgretolare il cemento che lo rinchiudeva. Batteva e lo spingeva verso le onde del mare.
Il bambino, infine, decise e si tuffò.
Si stupì di ritrovarsi a nuotare così semplicemente: nuotava e scrutava i fondali, aiutato dagli strati di acqua che gentili si aprivano per far passare i raggi del sole e permettergli di vedere meglio.
Trovò il vecchio che sembrava dormire adagiato su un letto di alghe. Lo raccolse fra le sue braccia e lo portò in superficie, poi, una volta raggiunta la spiaggia lo pose delicatamente sulla sabbia e attese, non sapeva cos’altro fare.
Nell’attesa, Blackmoom ascoltava attentamente ogni piega del suo corpo e ogni movimento dei suoi meccanismi interni, era certo che da un momento all’altro si sarebbero bloccati per via dell’acqua e che lui sarebbe diventato un’inutile statua di sale, ma stranamente questo non avvenne.
Anzi, al bambino sembrò di stare meglio di quanto fosse mai stato.
Dalla bocca del vecchio uscì un fiotto d’acqua e poi aprì gli occhi, guardò con dolcezza Blackmoom e parlò: «Ce l’hai fatta!» disse, poi alzò una mano e accarezzò il volto del bambino.
Blackmoon si commosse. Finalmente era riuscito ad aggiustarsi e aveva trovato qualcuno che gli voleva bene.
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